I pericoli reali per i cittadini dell’identità digitale: cosa succederebbe se degli hacker si impossessassero dei nostri dati

Un attacco informatico contro i documenti d’identità elettronici non sarebbe soltanto un incidente tecnico: rappresenterebbe una minaccia diretta alla fiducia dei cittadini e alla stabilità di un sistema che si fonda sempre più sulla digitalizzazione. Immaginare che un collettivo di hacker stranieri, o un gruppo sostenuto da uno Stato, riesca a penetrare l’infrastruttura centrale dei documenti d’identità elettronici significa ipotizzare la compromissione di milioni di dati personali: nomi, date di nascita, numeri AVS, codici dei documenti e perfino informazioni biometriche potrebbero essere copiati e diffusi. Basterebbe una vulnerabilità nel software o un server governativo poco protetto perché una falla diventasse il punto d’ingresso di un’operazione di spionaggio o di frode su larga scala. Anche un attacco man-in-the-middle, sfruttando accessi scarsamente protetti, potrebbe consentire agli aggressori di intercettare e duplicare credenziali e autorizzazioni.

Le conseguenze immediate sarebbero devastanti. Il furto d’identità diventerebbe una realtà quotidiana: documenti clonati utilizzati per aprire conti bancari, ottenere prestiti o ordinare beni a nome di ignari cittadini. Gli intrusi, avendo accesso a dati così sensibili, potrebbero penetrare nei sistemi amministrativi, presentare dichiarazioni fiscali false, richiedere prestazioni sociali indebite o perfino manipolare i registri del commercio. Se l’e-ID è equiparata a una firma legalmente valida, lo scenario si aggraverebbe ulteriormente, aprendo la strada alla creazione di contratti, procure o atti ufficiali falsificati, con ripercussioni legali e finanziarie difficili da contenere.

Sarebbe anche un problema per lo Stato, che si troverebbe al centro di polemiche incalzanti: “Chi ha sbagliato?” diventerebbe la domanda dominante nei media e in Parlamento. A livello internazionale, partner come l’Unione Europea e gli Stati Uniti potrebbero sospendere temporaneamente la cooperazione sui controlli digitali alle frontiere o bloccare lo scambio automatizzato di dati, temendo che l’intrusione possa avere ricadute oltreconfine.

Le ripercussioni a lungo termine andrebbero ben oltre l’urgenza della crisi. I costi per il contenimento dei danni, la riemissione dei documenti compromessi e l’aggiornamento delle misure di sicurezza rischierebbero di raggiungere cifre astronomiche. Eppure, anziché promuovere soluzioni più sobrie e distribuite, l’onda emotiva potrebbe alimentare la richiesta di un sistema ancora più centralizzato, magari basato su dati biometrici come impronte digitali o riconoscimento facciale, presentato come risposta definitiva ma potenzialmente foriero di nuovi pericoli. Si profilerebbe così una società a due velocità: da un lato chi continua a utilizzare strumenti digitali, assumendosi rischi sempre maggiori; dall’altro chi, rifiutando la tecnologia, verrebbe progressivamente escluso da servizi essenziali, con conseguenze sul piano dell’uguaglianza e della partecipazione civica.

Un attacco a un sistema di identità elettronica non rappresenterebbe solo un problema di cybersecurity: minerebbe le fondamenta stesse del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni, e potrebbe paradossalmente spingere verso forme di controllo e centralizzazione ancora più stringenti, riducendo lo spazio di libertà che la tecnologia dicono era nata per ampliare.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore.

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