“Le intelligenze artificiali, le criptovalute, il sistema diffuso di oggetti connessi e macchine che interagiscono fra loro su Internet, i gemelli digitali che forse si agiteranno nel metaverso non sono solo le stelle del momento, ma si caratterizzano per utilizzare tipi specifici di hardware – diversi da quelli usati in altri servizi o applicazioni – che dunque pongono nuovi interrogativi, anche per quanto riguarda l’impatto ambientale. Mi sento di dire che non hanno (e non avranno) un impatto ambientale trascurabile, per il semplice motivo che questi nuovi settori digitali non sono stati progettati sin dal principio per essere non impattanti. Anche se realizzati con nuovi accorgimenti tecnologici e con quanto di meglio disponibile in termini di efficienza, richiedono, per loro natura, risorse crescenti di calcolo e di connettività e dunque, intrinsecamente, lasciano impronte di carbonio profonde”, denuncia Giovanna Sissa nel libro “Le emissioni segrete: L’impatto ambientale dell’universo digitale (Farsi un’idea)”.
“Molte voci si sono levate per evidenziare e denunciare gli ingenti consumi energetici dietro alle criptovalute – evidenti a chi ne comprende il funzionamento, che si basa sull’esistenza di risorse di calcolo distribuite e specifiche, a cui vengono richieste attività energeticamente pesanti in alcune fasi (come il famigerato mining). Convalidare le transazioni ed estrarre nuove monete digitali è dispendioso in termini energetici (anche se in termini diversi a seconda dei meccanismi adottati dalle varie criptovalute) e inefficiente. Non ci si preoccupa molto di quanta energia si consumi per fruttuose attività speculative, almeno finché si continua solo a guadagnare. Considerazioni analoghe valgono per altre applicazioni decentrate della tecnologia blockchain, quali ad esempio gli NFT (Not-Fungible Token), ossia i certificati digitali usati nel mondo dell’arte, sempre a scopo prevalentemente speculativo. Sono anch’essi oggetto di critiche e sembrano un po’ passati di moda.
Nella maggior parte di paesi e aree geografiche le fonti non rinnovabili rappresentano ancora la gran parte delle fonti primarie di elettricità. Aziende che si approvvigionano da una rete elettrica in tali aree, ai fini della loro contabilità di carbonio, devono usare un fattore di conversione alto e di conseguenza le loro emissioni di carbonio risulteranno elevate.
Le aziende hanno anche la possibilità di acquistare un certificato REC disaggregato (unbundled REC ), ossia senza che l’energia effettiva sia venduta insieme al certificato stesso.
In questo caso, il beneficio ambientale dell’energia rinnovabile viene separato dall’energia stessa. L’azienda che produce energia rinnovabile può vendere il vantaggio ambientale rappresentato dall’unbundled REC senza vendere l’energia corrispondente.
La società che lo acquista può quindi dichiarare emissioni inferiori a quelle effettive. Poiché i certificati di energia rinnovabile disaggregati non comportano l’effettivo utilizzo di energia da rinnovabili, ma solo l’acquisto del certificato ai fini della contabilizzazione, l’offerta è molto più alta della domanda e dunque il loro prezzo al mercato dell’energia è basso.
In ultima analisi, poiché essi non comportano una maggiore produzione di energia rinnovabile, aumentano l’impronta di carbonio della rete elettrica.
La separazione fra energia e certificato rende anche più difficile tenere traccia di quali progetti di energia rinnovabile si nascondono dietro ogni certificato. Un’azienda che desidera ridurre le proprie emissioni e venire alimentata al 100% da fonti rinnovabili dovrebbe quindi cercare di investire direttamente in progetti rinnovabili o in PPA in cui i certificati di energia rinnovabile vincolati sono acquistati insieme all’energia elettrica”.
Il libro “Le emissioni segrete: L’impatto ambientale dell’universo digitale (Farsi un’idea)” di Giovanna Sissa lo trovate qui.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore.
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