“La rete si sta saturando di malfatta immondizia generata dalla intelligenza artificiale. Stiamo assistendo passivamente alla nascita di una nuova estetica dell’irreale che sta colonizzando la grammatica del nostro immaginario”, denuncia Uriel Crua.
“Le imperfezioni dell’intelligenza artificiale – quella monotonia vocale, quella gestualità francamente stonata, quelle espressioni facciali spettrali, gli strani accartocciamenti di dita- hanno una qualità onirica che fluttua in una nebbia inquietante tra l’umano e il non-umano.
Il punto cruciale è che queste “imperfezioni sintetiche” stanno diventando – a furia di ripetersi – un canone estetico. I giovani iniziano a parlare con quella cadenza artificiale, a gesticolare con quella rigidità meccanica vista negli influencer virtuali. È la nascita di un nuovo “perturbante comportamentale” che, invece di disturbarci, stiamo abbracciando come normale perché passa in rete, ossia in quel mondo che abbiamo eletto a filtro di Verità.
È particolarmente perverso perché mentre le imperfezioni umane raccontano storie – una ruga parla di sorrisi, una pausa rivela emozione – le imperfezioni dell’IA sono vuote, autoreferenziali. Sono glitch che si fingono umanità.
Non confondiamo solo il falso con il vero: stiamo attraversando una “deriva ontologica”, ricalibrandoci su una versione impoverita e artificiale dell’essere umano. Una mutazione estetica mascherata da progresso tecnologico, con conseguenze antropologiche profondissime.
Eppure è plausibile uno scenario opposto, dettato dall’eterogenesi dei fini. La tecnologia pensata per “migliorare” l’esperienza umana potrebbe produrre l’effetto contrario: una sete disperata di imperfezione autentica, di inefficienza umana, di limitatezza fisica. L’intelligenza artificiale, spacciata per “democratizzare la creatività”, potrebbe paradossalmente indispettire alcuni anticorpi atavici e riportarci a valorizzare proprio quello che voleva sostituire: la fatica del gesto artigianale, l’imperfezione della voce dal vivo, la casualità dell’incontro fisico.
Come se l’umanità, dopo aver attraversato e introiettato il deserto dell’artificiale, riscoprisse il gusto dell’acqua vera non per ignoranza del sintetico, ma proprio perché ne ha conosciuto fin troppo bene il sapore. Una “materialità aumentata” dalla coscienza di ciò che si è perso nel virtuale.
In tanti escono dalla rete e tornano a guardare il cielo. Gli occhi.
Ad annusare corpi.
Ad innamorarsi della voce”.
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